Omelia Don Carlo 17 febbraio 2019


*Omelia 17 febbraio 2019*

“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”.

La brutalità perentoria di Geremia, a cui la vita non ha riservato il comodo: era un borghese chiamato a fare il profeta di sventure ed è morto torturato.
E vede un rischio negli Ebrei che stanno per essere assediati e deportati: la tentazione tipica di un ebreo, di chi ha avuto la grande promessa ebraica.
Qual è il monito di Geremia?
“Maledetto l’uomo che confida nel uomo”.
La tentazione di confidare nell’uomo, cioè di aspettarsi la felicità da un uomo, dalle sue opere. È tipica di un ebreo, tanto l’ebreo stima l’uomo, perché questa tentazione non verrà mai a quelli che disprezzano l’uomo, ai fondamentalisti che per dare gloria a Dio devono togliere l’uomo. Viene a chi stima l’uomo tanto da chiamarlo protagonista della storia, perché nessuno più di Jahvè stima l’uomo e lo fa protagonista del mondo. Ma dice Geremia che se tu adori quell’uomo e ti aspetti da lui la tua felicità, tu sei maledetto, ti senti maledetto, perché – come dice proprio – è grande come chiamata, ma in sé è carne. La carne è il cibo più prezioso a livello proteico, no? Anche per loro che facevano i beduini nel deserto, ma è il cibo più corruttibile. Nel deserto non c’è il frigo: o la mangi subito o la perdi subito. Infatti בָּשָׂר (besar), carne, vuol dire il marcescibile, ciò che non dura, che ti marcisce tra le mani. L’uomo cos’è agli occhi di Geremia? È un lampo di vitalità, di bellezza che ti delude immediatamente, è proprio una creatura, non è Dio. Ma il cuore dell’uomo, che marcisce nella sua carne, brama l’Eterno. E se tu speri nell’uomo, dice Geremia, ti sentirai deluso e maledetto da Dio e dagli uomini, ma non perché tu pretendi troppo, ma il contrario, perché pretendi troppo poco! Perché sei meschino, hai dei desideri così piccoli che puoi arrivare a illuderti che un uomo li possa risolvere. Quando ti senti maledetto, disperato, che per te non c’è la felicità, ti senti sbagliato, non è perché pretendi troppo dalla vita, ma perché pretendi troppo poco, così poco che ti puoi illudere che te lo possa dare un uomo e sperare in un uomo. Questa è la tentazione della fede ebraica. Quella cristiana non è proprio uguale, perché al cristiano è successa un’altra cosa, dice Paolo. Infatti lui non usa questo termine, בָּשָׂר (besar), marcescibile, corruttibile, ma dice letteralmente Paolo:

“Noi siamo da commiserare più di tutti gli uomini”.

Ai Corinzi, che erano gente ricca, borghese, che stavano bene, intelligenti, vivacissimi, simpatici, pieni di doni, dice: voi rischiate di essere i più έλεεινότεροι, i più penosi, i più commiserabili, commiserevoli, quelli che fanno pietà, che fanno schifo. Il rischio di un cristiano, dice Paolo, che ha visto quello che avete visto voi, che ha visto Gesù Cristo morto e risorto, è di essere commiserevole davanti alla gente, di fare pena. Ma perché vi riducete così e riducete così quello che avete incontrato? Qual era il rischio dei cristiani? Parla ai Corinzi Paolo, ma è di tutti.

È – dice letteralmente – “di sperare in Cristo solo per questa vita”.

Cioè di interessarsi soltanto alla vita terrena che Gesù ha fatto, ai tre anni precedenti alla Sua Risurrezione, che tra l’altro lui non ha visto direttamente, gliel’hanno raccontata e badavano a dire: “Perché abbracciava”, “donna non piangere”, “faceva ‘sto miracolo”, “parlava con autorità”, “e poi sapessi quando è morto quanto ha stupito anche il centurione”… Gli badavano a parlare sempre dei tre anni precedenti alla Risurrezione e si fermavano sempre lì. E lui diceva: “Se voi continuate a insistere su questi tre anni, vi interessate, sperate in Cristo solo per questa vita, per quello che ha fatto in questa vita, siete i più miserabili, perché tutto questo è bellissimo, ma è carne, è triste, è una cosa che finisce, infatti è finito dentro un sepolcro; se non vi ricordate di quello che è successo dopo tre giorni voi siete i più miserabili degli uomini; tutto questo è bellissimo e commovente ma è miserabile, non entusiasma”. Quello che entusiasma è quello che è successo dopo, è l’eternità che è entrata nel mondo con la Risurrezione di Cristo, in quella carne che stava per marcire, è quel Fatto lì che dà alle cose piccole, fragili, il brivido dell’Eterno. È soltanto la Risurrezione, dice Paolo, di cui io ho coscienza più di chiunque di voi, che sfonda il naturalismo asfissiante della carne – diceva Geremia – corruttibile. Sono penose le vostre facce, mi sembrate i più miserevoli tra gli uomini. Vedono Paolo e lo invidiano: “Eh ma io ti invidio, invidiamo la fede che hai tu”, come se per loro non fosse possibile. Lui li guarda, li vede, sente il tono e dice: “È evidente, voi non credete in Cristo Risorto”. A parole lo dite sempre nella messa, che c’è la Risurrezione dai morti, ma son parole che non hanno peso specifico, è una fede ‘light’ la vostra, senza peso, non incide sul tono, sulla faccia, è una fede senza coscienza. Attenzione, non è che vi manca la conoscenza di Cristo, vi manca la conoscenza di voi stessi, dite “io credo” ma quell’io non ha peso, vi manca il peso del vostro io, del bisogno del vostro io. Nella vostra fede – dice Paolo – che è così penosa, non manca Cristo, neanche Cristo risorto, ma manca un io che ne abbia bisogno, che abbia bisogno del Risorto. Manca un io che non sia così meschino, che non si accontenti di così poco, manca un io a cui manchi l’eterno.